di
Marta Dell'Asta
Come l’ideologia comunista
ha potuto impiantarsi in Russia. Il ruolo di Lenin e del Partito. Negazione
della realtà e deformazione della coscienza: la “catastrofe antropologica”
di chi ha abbracciato l’ideologia.
[Da «il Timone» n. 59, gennaio 2007]
Il processo di secolarizzazione iniziato con l’Illuminismo ha trovato lo
sviluppo teorico e l’applicazione storica più ampia nel comunismo. E
tuttavia il bolscevismo ha potuto vincere nel 1917 solo grazie alle
condizioni favorevoli create da un lungo processo di scristianizzazione
della cultura.
Alcuni pensatori cristiani russi, che tra il XIX e il XX secolo avevano
intuito l’approssimarsi di una catastrofe, individuavano il nocciolo di
quella crisi drammatica nell’intelligencija e nel suo ateismo (secondo la
formula sintetica di Sergej Bulgakov): non nell’ingiustizia sociale o
nell’autoritarismo zarista, ma nell’ateismo.
Un clima favorevole
Nel XIX secolo era nata in Russia una nuova classe colta, emancipatasi
socialmente attraverso l’istruzione, anelante cambiamenti e critica verso
il potere costituito. Il governo aveva risposto con misure poliziesche e
questa chiusura, odiosa e controproducente, aveva riempito di rancore gli
intellettuali e squalificato lo Stato. I giovani, per reazione, avevano
cercato i propri valori in una cultura positivista e demolitrice, che
negava radicalmente i valori tradizionali. Questo stato di opposizione li
aveva spinti ad alienarsi da una realtà che odiavano e a invaghirsi delle
idee astratte.
Il frutto più tragico di questo scollamento era stata la nascita di un
terrorismo nichilista che dapprincipio usava la violenza per odio
distruttore, ma poi aveva superato persino quanto descritto dallo stesso
Dostoevskij. Si era arrivati così alla dimensione apocalittica del nuovo
terrorismo del primo ‘900, che non uccideva più per odio, ma in nome di un
amore per la morte che superava quello per la vita (come testimonia l’ex
terrorista Savinkov nel suo romanzo Il cavallo pallido).
Per i nuovi terroristi la morale politica e personale era svincolata dal
concetto di verità e di bene. Il loro odio per la realtà e l’insensibilità
alla vita erano, secondo il filosofo Nikolaj Berdjaev, l’esito della
vittoria del positivismo, che negava ogni metafisica e ogni fede religiosa,
ogni assoluto in nome del primato dell’utile. Privilegiando l’utile,
avveniva l’insensibile scivolamento della lotta rivoluzionaria da strumento
di liberazione ad assoluto in sé: si amava l’uomo in astratto solo nella
misura in cui questo amore serviva a distruggere l’ordine costituito.
Tutti questi elementi, descritti da Bulgakov, Berdjaev e dagli altri autori
dell’antologia Vechi (pubblicata nel 1909 da un gruppo di intellettuali
russi passati dal marxismo al cristianesimo), alimentavano un clima
spirituale pericolosamente incline alle tentazioni ideologiche. Affinché il
totalitarismo trionfasse era necessario soltanto il ruolo di un «demiurgo»,
perché il terreno era già preparato.
Il ruolo di Lenin
Autore, ma al contempo prigioniero della propria ideologia, Lenin era il
vero rivoluzionario di professione, per il quale la rivoluzione non era
soltanto una concezione della lotta politica, ma esauriva il senso della
vita, inducendolo a rinunciare alla propria umanità, a svuotarsi del
proprio io, e ad eliminare direttamente quello dei nemici. La fedeltà alla
linea del Partito (che lui stesso aveva creato) era diventata il suo nuovo
io.
La sua teoria del Partito unico, coscienza avanzata dell’umanità e fonte
della verità, era il nucleo portante dell’ideologia sovietica, del primo
totalitarismo mondiale. Quello che contava in tale ideologia non era tanto
il contenuto marxista, o l’utopia comunista, ma, a monte di questo, il
funzionamento patologico della ragione che creava a se stessa i propri
idoli e se li autoimponeva come oggetti di fede assoluta. Questa
particolare struttura di pensiero implicava l’odio per la realtà data, che
si concretizzava nel rifiuto della propria storia e nella conseguente
perdita di identità. Collegata a questo, la ricerca costante del nemico,
che giustificasse una concezione della vita come distruzione e lotta.
La politica antireligiosa non occupava il primo posto nell’attenzione di
Lenin, ma solo perché tutta la sua politica in quanto tale era
antireligiosa, ossia radicalmente antiumana, e le misure direttamente
indirizzate contro la Chiesa erano solo un epifenomeno del suo vasto
progetto generale. Certo, per ottenere il risultato voluto, era stato
necessario distruggere nella mentalità comune il riferimento al Dio
trascendente, per lasciare che la coscienza fosse modellata dalla sola
ideologia comunista. Così, a partire dal 1922, accanto alla persecuzione
diretta del clero e alla chiusura totale delle chiese, era nato un intero
apparato per la propaganda e formazione antireligiosa.
L’onda lunga del
comunismo
La mentalità dell’élite rivoluzionaria doveva però essere trasformata in
mentalità generale. Lo sviluppo successivo della «società sovietica» vera e
propria ha comportato lo sforzo di inculcare nella massa questo tipo di
pensiero ideologico.
Del resto, le caratteristiche stesse del pensiero ideologico erano quanto
mai propizie all’assimilazione da parte di una massa atomizzata. Inoltre,
per rendere «patrimonio comune» la morale rivoluzionaria, il Partito aveva
trovato i giusti stimoli e deterrenti: in primo luogo, la propaganda, che
andava però sempre unita all’intimidazione, al terrore fisico e al ricatto
morale. Intendiamo parlare degli arresti senza motivo, delle condanne senza
reato, delle esecuzioni senza processo, dei lager, delle deportazioni,
dell’etichetta micidiale di «nemico del popolo», dell’uso degli ostaggi,
della vendetta sui familiari e così via.
In questo modo, nel giro di un decennio la massa aveva stabilmente
assimilato il concetto che l’unica fonte di verità e di bene era lo
Stato/Partito, che la coscienza non risiedeva più nell’intimo ma nel
collettivo, e che era reale non ciò che esisteva, ma quanto veniva
dichiarato dalla fonte del potere.
L’esempio classico che illustra questo stato di cose è quello del dodicenne
Pavlik Morozov che nel 1930 aveva denunciato e fatto fucilare il proprio
padre come «nemico del popolo» e che, ucciso a sua volta per vendetta, era
stato glorificato come eroe nazionale e icona dell’uomo nuovo. Questo
distacco dalla realtà e dal comune senso morale è stata l’operazione
«culturale» più impegnativa e riuscita del regime: fare in modo che un
popolo intero accettasse di credere non a quello che vedeva e toccava, ma a
quello che gli veniva predicato, e che amasse chi lo tormentava. Del resto,
questa distruzione di enorme portata era l’unica condizione che potesse
garantire, a lungo termine, la stabilità del regime.
L’ideologia è morta, viva
l’ideologia
Nikolaj Berdjaev aveva osservato che la negazione della Verità trascendente
finisce per deformare la struttura della coscienza umana, rendendole
impossibile distinguere il bene dal male, addirittura la realtà
dall’immaginazione. Questo fenomeno, che si è verificato su scala enorme in
Unione Sovietica, conteneva in sé il segreto del successo del regime, ma
anche l’origine della sua rovina. Infatti, la distruzione della creatività
e il disprezzo della realtà, per paura o per calcolo, in nome del piano
quinquennale o della direttiva del Partito, ha reso impossibile il normale
funzionamento dell’economia e dello Stato, che invece hanno bisogno di
risultati reali e non della tufta, (nel gergo dei lager il «bidone») eretta
a principio sociale.
La distruzione dell’io umano ha generato nei paesi comunisti ogni genere di
mistificazione e di mito, ha permesso ogni sorta di mostruosa ferocia e
genocidio, ma ha creato anche il risibile fantoccio di un ideale
impossibile da realizzare. Non c’è via d’uscita da questo ginepraio se non
ripartendo dal nucleo profondo del pensiero ideologico, dall’uso della
ragione e dal soggetto che se ne fa carico. Questo, almeno, è quello che
avevano capito e di cui avevano fatto esperienza i dissidenti sovietici,
che sicuramente hanno dato una spallata al potere ideocratico. Al di fuori
della realtà e della persona come valore primario e assoluto non c’è modo
di uscire da questa logica, se no l’ideologia è destinata a riprodursi
nello spazio e nel tempo come un’idra di Lerna.
© il Timone
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