"18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice
della sconfitta del Fronte Popolare"
della sconfitta del Fronte Popolare"
Nato a Venezia nel 1902, Luigi Gedda ha attraversato la storia di tutto il secolo XX militando fin dalla giovinezza nel movimento cattolico italiano. Membro dapprima della Società della Gioventù Cattolica italiana, a Torino, dove ha vissuto fino al 1917 con la famiglia, dopo il trasferimento a Milano in seguito alla morte della madre, scomparsa l’anno precedente, ha partecipato alla vita della Gioventù Cattolica Ambrosiana. Da allora la vita di Gedda sarà soprattutto caratterizzata — oltre che dalla professione di medico esperto di genetica, che lo porterà a diventare un’autorità di fama internazionale nel campo della gemellologia, culminata nella fondazione dell’Istituto Gregorio Mendel, tuttora da lui diretto a Roma — dall’appartenenza all’Azione Cattolica Italiana, della quale sarà Presidente centrale della GIAC, la Gioventù Italiana di Azione Cattolica, dal 1934 al 1946, Presidente degli Uomini di Azione Cattolica dal 1946 al 1949 e quindi Presidente Generale di tutta l’associazione dal 1952 al 1959.
Due mesi prima delle elezioni del 18 aprile 1948 fonderà i Comitati Civici, dopo aver ricevuto un suggerimento in tal senso da Papa Pio XII, al fine di costituire uno strumento capace di mobilitare i cattolici e gli italiani con un’efficace propaganda, in grado di opporsi al Partito Comunista Italiano e di superare l’astensionismo. Conosciuto soprattutto come l’uomo dei CC e della lotta contro il comunismo, in realtà esiste un’altra dimensione di Gedda, silenziosa e costante, manifestatasi nella costituzione della Società Operaia, un’associazione laicale fondata da Gedda a Roma nel 1942 e tuttora operante, allo scopo di "raccogliere quanti "laici come laici" volevano consacrare la vita a diffondere nel mondo presente il messaggio di Gesù" (1), seguendo una spiritualità incentrata nel Mistero dell’agonia di Cristo nel Getsemani. Alle caratteristiche di questa spiritualità, Luigi Gedda ha dedicato due opere (2). La Società Operaia è stata eretta in associazione di diritto pontificio dal Pontificium Consilium pro laicis nel 1981; una descrizione delle sue finalità è stata scritta nella biografia di Gino Pistoni, un giovane appartenente sia all’ACI e che alla Società Operaia, caduto ventenne durante la guerra civile in Italia nel 1944: "In sostanza, un modo di intendere la vita come consacrazione, come volontà di vivere non solo i precetti ma ancora i consigli evangelici, nel matrimonio o fuori del matrimonio, nel laicato o nel sacerdozio. Una coalizione di tutte le energie della Chiesa ai fini dell’apostolato, che non può essere inteso come il peso o il privilegio di pochi, ma come la responsabilità e la nobiltà di tutti, qualunque ne sia lo stato o l’età. Un’operosa nostalgia delle prime età cristiane che si vorrebbero far rivivere nell’ardore di vita e nell’amore fraterno che li contraddistingue. Un impalpabile e pur concreto vincolo fra anime che continuando la loro vita nelle loro case, e conservando la propria spiritualità si ritrovano unite in un comune riferimento al momento mistico del Getsemani, il momento della solitudine e del sacrificio della propria volontà a quella del Padre. Infine un comune proposito di vivere la propria fede in una costante realizzazione di "opere", che rendano gloria al Padre. Operai evangelici, operai di Cristo, consacrati per la vasta messe dell’apostolato dell’oggi e del domani" (3).
Finalmente, Luigi Gedda ha voluto mettere per iscritto alcuni aspetti della sua ormai quasi secolare militanza, in particolare prendendo spunto dalle udienze concessegli dai Pontefici Pio XI e Pio XII. Ne è nato un libro di memorie (4), di grande importanza per poter ricostruire correttamente la storia recente della nostra nazione. L’opera, uscita in Italia a ridosso del cinquantennale del 18 aprile 1948, ha sollevato un interesse notevole anche se quasi esclusivamente limitato alle elezioni del 1948, e Luigi Gedda è così ritornato per un momento al centro dell’attenzione dei mass media. Tuttavia, facendo un bilancio degli effetti visibili prodotti dall’edizione di queste memorie, si può ragionevolmente sostenere che esse abbiano sostanzialmente contribuito a riportare in auge la tesi secondo cui nel 1948 vi è stata una vittoria della Democrazia Cristiana, e di Alcide De Gasperi in particolare, contro il PCI di Palmiro Togliatti, con il contributo certamente importante, ma sostanzialmente episodico, dei CC di Luigi Gedda. In realtà, la lettura delle memorie e una riflessione un poco più meditata — peraltro presente nella storiografia sull’episodio, ma mai passata nel comune sentire (5) — portano oltre questa interpretazione, fornendo elementi per cogliere nella storia del cattolicesimo italiano elementi di un malessere del quale i Papi erano a conoscenza, malessere precedente e successivo all’episodio del 18 aprile.
Infatti, le novanta udienze concesse a Luigi Gedda, ventisei da Pio XI e sessantaquattro da Pio XII, hanno naturalmente come soggetto principale l’ACI, cui Gedda ha dedicato tanta parte della vita (6). Il resoconto di tali udienze permette così al lettore di entrare all’interno, e al vertice in qualche modo, della stessa ACI, attraverso il resoconto dei colloqui avvenuti fra uno dei massimi dirigenti prima e poi Presidente generale dell’ACI e i due Pontefici che, in quanto vescovi di Roma, avevano autorità diretta sull’ACI, organismo di apostolato gerarchico che impegna la Chiesa stessa nel suo apostolato. Il lettore potrà così avere nuovi elementi per valutare l’ascesa e il crollo dell’ACI svoltasi nel secondo dopoguerra, e soprattutto troverà motivo di constatare come l’opposizione allo stile dell’ACI di Gedda, e di Papa Pio XII — culminata negli anni 1960 nella cosiddetta "scelta religiosa" (7) si manifesterà già negli anni 1950, con episodi gravi e significativi, come quelli relativi all’uscita dall’ACI, in polemica con Gedda, di due fra i suoi massimi dirigenti, Carlo Carretto e Mario Rossi.
Le udienze cominciano nel 1934 e le testimonianze di Gedda sono anzitutto legate a fatti che hanno relazione con la sua presidenza della GIAC, dal 1934 al 1946. Esse testimoniano il clima di contrapposizione "culturale" fra la Chiesa e il regime fascista, per quanto riguarda l’influenza sulla società; l’ACI era forse lo strumento principale attraverso il quale il cristianesimo doveva permeare il corpo sociale opponendosi al tentativo di alcuni esponenti della gerarchia fascista di creare l’"uomo nuovo" utilizzando il potere dello Stato, e per questo proprio l’ACI, la "pupilla degli occhi di Pio XI", era stata al centro dello scontro fra la Chiesa e il regime nel 1931 e lo sarà ancora nella crisi del 1938. Il 10 febbraio 1939 Papa Pio XI moriva e il 2 marzo veniva eletto Pontefice il cardinale Eugenio Pacelli con il nome di Pio XII.
Durante il pontificato di Papa Pio XI Gedda aveva fondato il Vittorioso, affidandone la direzione al giornalista e scrittore Nino Badano, un giornale giovanile che ebbe tanto consenso al punto che vent’anni dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1966, è stata fondata un’associazione nazionale di amici del Vittorioso; tuttavia, anche per ragioni anagrafiche, sarà durante il pontificato di Pio XII che l’opera di Gedda si svolgerà compiutamente. L’ACI era l’unica associazione non dipendente dal regime che avesse mantenuto una struttura organizzativa non clandestina e quindi, alla caduta del fascismo, Luigi Gedda capisce che l’ACI "[...] avrebbe perciò potuto fornire i quadri dirigenti, come di fatto avvenne, per la ricostruzione politica della nazione" (8). Nel 1946 viene nominato Presidente degli Uomini di Azione Cattolica e in questa veste, nell’udienza che ha per oggetto l’adunata nazionale degli uomini di AC dal 6 all’8 settembre 1947, affronta il tema del "[...] piano di azione per la prossima consultazione elettorale della Repubblica italiana e di come superare gli oltre quattro milioni di voti raccolti dai comunisti alle elezioni per l’Assemblea Costituente. Poiché sembra che i comunisti vogliano "bloccare" con i socialisti, si potrebbe indurre la Democrazia Cristiana a fare blocco con altri partiti e a utilizzare candidature significative come quella del conte Dalla Torre, che potrebbe temporaneamente dimettersi dalla direzione dell’"Osservatore Romano". Il Santo Padre menziona "Civiltà Italica", una iniziativa politica di monsignor Ronca, ed io obietto che meglio sarebbe riprendere l’Unione Elettorale Cattolica nominata dai Vescovi, che aveva bene funzionato in altri tempi ed Egli approva" (9). In un’altra udienza del 1947 il Papa è "[...] addolorato per il comportamento della Democrazia Cristiana e della Seconda Sezione della Segreteria di Stato a proposito dei rapporti con il Fronte dell’Uomo Qualunque" (10), a conferma della preoccupazione del Papa circa la possibilità che il PCI conquistasse la maggioranza relativa alle elezioni.
Così, nell’udienza del 10 gennaio 1948, Papa Pio XII afferma che "[...] si tratta di una lotta decisiva e che perciò è il momento di impegnare tutte le nostre forze" (11) e ribadisce la propria scontentezza "[...] per gli errori commessi dai democristiani, per le beghe interne al partito, per la leggerezza con la quale essi affrontano i problemi" (12): nasce così l’idea di costituire quelli che poi Gedda vorrà far chiamare Comitati Civici, cioè organismi anzitutto preposti alla mobilitazione elettorale del mondo cattolico in vista delle elezioni del 18 aprile 1948.
Questa scadenza elettorale ebbe anche un riflesso sulla vita dell’ACI, come ricorda lo stesso Gedda, perché l’associazione si trovava divisa fra chi voleva affiancare la DC nella lotta elettorale, come l’allora Presidente Generale avvocato Vittorino Veronese, e chi invece, come Gedda, promuovendo i CC forniva "[...] un insegnamento fondamentale ai cattolici italiani impegnati ad assolvere un dovere elettorale: non è sufficiente l’esistenza di uno o più partiti di ispirazione cristiana, ma è necessario che esista una struttura politica non partitica in ogni diocesi, cioè che esistano un Comitato nazionale e dei Comitati diocesani composti da cattolici autentici e non interessati a una candidatura personale" (13), come farà lo stesso Gedda rifiutando la candidatura al collegio senatoriale di Viterbo offertagli dalla DC in occasione delle elezioni del 18 aprile. Il fondatore dei CC aggiunge poi, riferendosi a quanto successivamente accaduto nella storia del paese e del mondo cattolico, che la validità dell’esperienza unitaria provata allora con i CC per volontà di Papa Pio XII è confermata dalle "[...] tristissime vicende della prigionia e morte di Aldo Moro e della uccisione di Vittorio Bachelet, nonché la trasformazione degli Statuti dell’Azione Cattolica di Pio XI operata dai monsignori Costa e Guano" (14), che hanno provocato l’attuale disorientamento degli elettori cattolici, la loro divisione e l’impossibilità così di "imporre il pensiero cristiano alla politica italiana" (15). "Una struttura analoga a quella dei Comitati Civici — conclude Gedda — dovrebbe però avere, a differenza di quanto avvenne nel 1948, una vita permanente, in modo che essa possa garantire un’efficiente presenza e controllo dei cattolici sulla moralità della vita politica" (16).
Viene poi la tanto sospirata vittoria elettorale del 18 aprile. Opportunamente, Luigi Gedda fornisce il numero degli elettori che scelsero la DC nel 1946, nelle elezioni per l’Assemblea Costituente, cioè 8.101.004, e quelli che la votarono nel 1948, nelle elezioni per la Camera dei Deputati, cioè 12.741.299, per far capire come i quasi cinque milioni di voti in più non sarebbero arrivati senza la mobilitazione capillare dei CC. "Pio XII è molto rasserenato [...]. Osserva che anche Giannini dell’Uomo Qualunque avrebbe potuto ottenere un buon risultato, se non avesse sbagliato nel promuovere un fronte antigoverno mediante l’unità sindacale con la Confederazione Generale dei Lavoratori" (17), ricorda Gedda riferendo dell’udienza del 22 aprile, la trentunesima con Papa Pio XII.
La situazione della Chiesa in Italia e la politica nazionale non sono l’unica materia delle udienze fra Gedda e il Pontefice, anche se hanno un posto predominante, dato il ruolo ecclesiale e politico, anche se non partitico, del dirigente di ACI e fondatore dei CC. Per questo, Gedda trova il modo di presentare al Papa il suo libro Studio dei Gemelli (18), ma rimangono al centro delle conversazioni i grandi problemi del mondo cattolico italiano, nel quale, secondo Gedda, "[...] vige un clima di benestantismo, cioè di quietismo, e Pio XII commenta che "manca lo spirito di conquista"" (19) e mancano le scelte di politica nazionale: "Gli chiedo se dobbiamo continuare ad appoggiare la Dc con i Comitati Civici ed Egli approva questo orientamento, ma consiglia di non attaccare le destre perché non diventino a loro volta anticlericali" (20). A questo proposito, un certo rilievo merita la 47a udienza, avvenuta il 17 giugno 1952, di poco successiva al fallimento dell’Operazione Sturzo, quando il Papa avrebbe voluto la costituzione di un’unica lista per le elezioni comunali romane fra tutti i partiti anticomunisti, e incaricò don Luigi Sturzo di condurre appunto l’operazione. Ma Papa Pio XII e Gedda, che nel frattempo era diventato Presidente generale dell’ACI, dovettero subire il rifiuto di tutti i Presidenti dei rami dell’ACI, e cioè "[...] Carretto (Giac), Badaloni (Maestri Cattolici), Miceli (Gioventù Femminile) e Carmela Rossi (Donne Cattoliche), come pure la Fuci e i Laureati Cattolici; e questo perché l’operazione Sturzo coinvolgeva l’elettorato di destra. Soltanto Maltarello, presidente degli Uomini di Ac, si dichiarò favorevole" (21). Gedda trova il Papa "molto triste" (22), che "[...] osserva che l’Azione Cattolica collabora non con la Chiesa ma con la Democrazia Cristiana" (23), che gli parla di "amare scoperte" (24), arrivando ad affermare che "l’Azione Cattolica, per la quale sono stati fatti tanti sacrifici, non è più nostra" (25). In questo periodo matura il "ribaltamento" del pensiero di Carlo Carretto — che il 17 ottobre 1952 rassegna le dimissioni — la cui trasformazione si deve soprattutto "[...] all’influenza degli uomini della Democrazia Cristiana che lavoravano per un’intesa con i comunisti, e in particolare a Giuseppe Dossetti" (26). A Carretto succede Mario Rossi, che "[...] portò nella Giac la tendenza a considerare la politica estranea alla disciplina ecclesiale dell’Azione Cattolica, conferendole invece un’impronta di tipo marxista conforme al socialismo sopravvissuto al fascismo nel suo Polesine" (27); anche lui, nel giro di due anni, viene costretto alle dimissioni con quasi tutti i dirigenti centrali della GIAC (28).
Evidentemente, il malessere presente nell’ACI, che esploderà negli anni successivi al Concilio Ecumenico Vaticano II con la cosiddetta "scelta religiosa" — in sintesi, una linea pastorale che escludeva il desiderio di costruire una società il più possibile conforme al diritto naturale e rivelato, cioè escludeva quello spirito di conquista la cui assenza era già stata denunciata da Papa Pio XII — e che porterà al crollo delle iscrizioni, che nel 1954 avevano superato i tre milioni, tale malessere per Gedda venne acuito dalla riforma degli Statuti dell’ACI voluta nel 1953 dai "[...] Monsignori Costa e Guano, che trasformarono sullo schema della Fuci e della sua mentalità l’Azione Cattolica dei cinque rami stabilita da Pio XI" (29).
Ma qual’era questa mentalità? Un libro di memorie non è la sede per una risposta esaustiva a una domanda di questa portata. Un’indicazione può essere contenuta in queste parole, poste quasi al termine del libro: "La confusione non si manifestò soltanto ai vertici del partito, ma si estese anche alle organizzazioni cattoliche, per cui alla linea dell’ortodossia assoluta che aveva caratterizzato l’Azione Cattolica durante il fascismo e l’azione dei Comitati Civici, successe un periodo nel quale, a causa del cattivo esempio della Democrazia Cristiana, prevalse la linea di rispettare la democrazia qualunque essa fosse" (30). Esse ricalcano la denuncia di Papa Giovanni Paolo II nelle encicliche Centesimus annus ed Evangelium vitae a proposito della democrazia senza valori, del relativismo che porta all’autodistruzione dello Stato e della stessa convivenza nazionale. Queste parole descrivono anche le difficoltà dei cattolici italiani negli anni 1950, immersi in una situazione di apparente grande consenso e forza, ma in una nazione che andava secolarizzandosi nella cultura e nel costume e nella quale stava guadagnando consensi una risposta sbagliata a problemi reali, quella che già allora asssumeva i connotati del progressismo e che, nella ricostruzione di Luigi Gedda, aveva una posizione di forza e di grande influenza nella sinistra democristiana guidata da Giuseppe Dossetti.
La preziosa opera di Gedda aiuta così non soltanto a ricostruire la storia del paese e del movimento cattolico in Italia, ma permette anche di riconoscersi oggi nel lavoro apostolico di chi ha già combattuto la stessa "buona battaglia".
Marco
Invernizzi
(1) Manuale operaio, Ed. operaie, Roma 1973, p. 24.
(2) Cfr. Luigi Gedda, Getsemani. Meditazioni per l’uomo d’oggi, 4a ed., Massimo, Milano 1987; e Idem, Spiritualità getsemanica, Massimo, Milano 1992.
(3) Giovanni Getto, Gino Pistoni. Ritratto di un caduto per la libertà, a cura di Rodolfo Venditti, Piero Gribaudi editore, Milano 1994, p. 74.
(4) Cfr. L. Gedda, 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare, Mondadori, Milano 1998.
(5) Sul 18 aprile 1948, cfr. il mio Democrazia Cristiana e mondo cattolico nell’epoca del centrismo (1947-1953), in Cristianità, anno XXVI, n. 277, maggio 1998, pp. 19-23.
(6) Per comprendere appieno la nascita e il significato dell’ACI, quest’ultima va situata all’interno della storia del movimento cattolico ma non va confusa con esso, di cui rappresenta una particolare modalità organizzativa. In sintesi, non si deve confondere l’"azione cattolica" con l’Azione Cattolica Italiana. A quest’ultima faccio riferimento in questo articolo, cioè alla realtà nata dai nuovi Statuti approvati il 2 ottobre 1923. La bibliografia sull’ACI è sterminata; per un primo approccio, prescindendo dalla posizione ideologica degli autori, cfr. Mario Casella, L’Azione Cattolica del tempo di Pio XI e di Pio XII (1922-1958), in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980, vol. I/1 I fatti e le idee, Marietti, Torino 1981, pp. 84-101; Renato Moro, Azione Cattolica Italiana (ACI), ibid., vol. I/2, I fatti e le idee, pp. 180-191; Guido Formigoni, L’Azione Cattolica Italiana, Àncora, Milano 1988; e Mario Agnes, L’Azione Cattolica in Italia. Storia identità missione, a cura e con presentazione di Michele Zappella, Sangermano, Cassino 1985.
(7) Sulla "scelta religiosa", cfr. ACI, scelta religiosa e politica. Documenti 1969-1988, AVE, Roma 1988, a cura di Raffaele Cananzi, Presidente nazionale dell’ACI in quel tempo; e cfr. anche La Chiesa italiana e le sue scelte. La questione della "scelta religiosa". Contributo a un dibattito, Quaderni, 2, Supplemento a Litterae Communionis - CL, 1983, che raccoglie i risultati di un lavoro seminariale condotto da don Luigi Negri.
(8) L. Gedda, 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare, cit., p. 87.
(9) Ibid., pp. 104-105.
(10) Ibid., p. 105. Il Movimento, poi Fronte dell’Uomo Qualunque è un movimento politico fondato — con il settimanale L’Uomo Qualunque — dal commediografo, giornalista e uomo politico campano Guglielmo Giannini (1891-1960) nel secondo dopoguerra in alternativa ai partiti del CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale, alla cui prospettiva politica cerca di contrapporre appunto le esigenze degli "uomini qualunque": cfr. Sandro Setta, L’Uomo qualunque. 1944-1948, 2a ed., Laterza, Roma-Bari 1995.
(11) L. Gedda, 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare, cit., p. 115.
(12) Ibidem.
(13) Ibid., pp. 126-127.
(14) Ibid., p. 127.
(15) Ibidem.
(16) Ibidem.
(17) Ibid., pp. 132-133.
(18) Cfr. ibid., p. 146.
(19) Ibid., p. 147.
(20) Ibidem.
(21) Ibid., p. 153.
(22) Ibidem.
(23) Ibidem.
(24) Ibidem.
(25) Ibid., pp. 153-154.
(26) Ibid., p. 154; su Dossetti, cfr. la mia Nota su Giuseppe Dossetti e sul dossettismo, in Cristianità, anno XXV, n. 263, marzo 1997, pp. 3-6.
(27) L. Gedda, 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare, cit., p. 155.
(28) Cfr. ibid., p. 156.
(29) Ibid., p. 172.
DI HS
comedonchisciotte.org
Quando Moro venne rapito e assassinato non avevo ancora
compiuto sette anni e facevo le elementari dalle suore. Con il trascorrere
degli anni i ricordi si sono fatti meno nitidi e più confusi nei particolari.
Rammento le inquietudini e la tensione spasmodica, ma anche una sorta di
torpore quotidiano per certo aspetti. E’ vero: il paese stava affrontando la
prova del più grave delitto della stagione del terrorismo genuino o pilotato,
ma che volete farci ? In fondo tutto rientrava in una specie di “normalità”
mostruosa quanto si vuole, ma sempre normalità… Per noi che eravamo dei teneri
virgulti non ancora affacciati sui percorsi più aspri della vita erano sì
giorni convulsi, ma i nostri occhi brillavano soprattutto per le magie della
nuova animazione giapponese dei robottoni con il capostipite di quest’ondata
“Atlas Ufo Robot: Goldrake”. Tuttavia, per la prima volta nella nostra giovane
vita di bambini nati fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni
Settanta, misuravamo per la prima volta quella che poteva essere la dimensione
drammatica e perfino tragica dell’esistenza. Se con i 55 giorni fra la strage
di via Fani e l’assassinio dello statista scoprivamo la ferocia dei quegli anni
di violenza “politica” e “impolitica”, assistendo alle puntate del mitico
“Goldrake” ci immergevamo per la prima volta nella visione di un cartone che si
segnalava per le sue tematiche all’epoca piuttosto “forti” rispetto a Disney e
ad Hanna & Barbera.
Ricercare e rispondere alle domande – alcune non tutte ! –
sui misteri dell’affaire Moro è per me, in certo qual modo, vita perché in
fondo io sono “nato” in quella terribile primavera del 1978. Insomma, da dove
veniamo noi, figli del benessere postmoderno e quale è stato il significato del
delitto Moro in un paese come il nostro che, quasi da un giorno all’altro, è
entrato nel novero dei paesi ricchi e “opulenti”. Chi e come ha “governato”
quel passaggio epocale e così mirabilmente descritto da Pasolini nei suoi
“Scritti Corsari” che ha reso l’Italia un paese antropologicamente diverso,
edonista e consumista ? Moro costituiva realmente un ostacolo per taluni
disegni ?
Si può discutere senza sosta e senza fine sul carattere, gli
obbiettivi e l’essenza della linea di “apertura a sinistra” dell’onorevole
democristiano Aldo Moro, coglierne indubbi difetti, doppiezze e pure ambiguità,
ma è indubitabile che almeno dal 1964 la sua carriera politica fu al centro del
mirino con tentativi e di attentare alla sua vita e di influenzare,
condizionare, deprivare e neutralizzare la dirittura politica di cui era
portatore e promotore. Nessun altro politico della storia della Repubblica
italiana ha avuto in sorte una carriera politica così travagliata, contrastata
e minacciata e ciò fa riflettere sul quanto scomodo egli fosse per nutriti
settori dell’establishment interno ed internazionale. Il delitto Moro entra
indubitabilmente nel grande pantheon degli assassinii politici del Dopoguerra,
quelli perpetrati nei confronti di leader appartenenti all’establishment che
proprio per volontà e propositi di cambiamento e di riforma sono stati
eliminati proprio dal “Sistema”. Moro, quindi, accanto a personalità come i due
Kennedy, Palme e Rabin, ma l’ombra dell’intero affaire Moro si staglia ancor
oggi sul nostro paese. Pesa come un macigno in una Repubblica dall’impianto
istituzionale e sociale fragilissimo. Spauracchi, paure, ricatti incrociati,
avvertimenti in stile mafioso, colpi bassi intorno al fantasma di Moro e dietro
questo gran rumoreggiare e a questa appropriazione indebita di cadavere il
silenzio dell’anima. L’impressione principale che se ne ricava è che in fondo
le verità dell’affaire Moro sono molto più delicate e inquietanti di quello che
ancor oggi possiamo pensare. La morte di Moro ha stroncato e dettato carriere,
scosso coscienze e ci interroga sulla zona d’ombra della nostra Repubblica e
sui meccanismi anche internazionali della macchina del Potere. Per questo
nessun delitto politico è paragonabile a quello dello statista democristiano e
non solo per complessità dei retroscena, per le complicità, le contiguità , gli
intrecci con gli altri cosiddetti misteri d’Italia e i lati più oscuri ed
inquietanti. Neanche il caso JFK ha potuto assumere una tale rilevanza in
America. L’ombra di Moro sussurra alle nostro orecchie cose che non vorremmo
sentire, insinua parole inquietanti e dure sulla nostra giovane e sgangherata
“democrazia” e sul nostro essere “italiani”. Quando poi subentra il silenzio
omertoso, complice o imbarazzato quel sussurro diventa grido…
Questo lungo articolo non si propone di scrivere la parola
“Fine” sulla vicenda, che, peraltro sarebbe intenso assai immodesto, ma di fare
un excursus sui tentativi di attentare alla vita di Moro e di bloccare con
mezzi “sleali” la sua linea di collaborazione con le sinistre, PSI prima e PCI
poi, prima della strage di via Fani e del sequestro Moro. A partire da queste
premesse non si può non convincersi quanto fossero state veritiere le parole
del giornalista Mino Pecorelli che riteneva le BR soltanto uno strumento, un
“pugno di killer senza cervello”, in quel caso al servizio di qualche lucido
“Superpotere”. Da quanto ho precedentemente scritto sull’”Affaire Moro” diventa
chiaro e lampante che le BR furono affiancate e fiancheggiate da “alleati”
insospettabili e ancor oggi il ruolo della loggia massonica P2 è da sondare nei
particolari e nei dettagli. Se poi consideriamo la cronistoria di quei
tentativi che hanno preceduto via Fani non si possono che trarre le logiche
conseguenze: i mandanti e gli ispiratori sono quasi esclusivamente da
ricercarsi in “campo occidentale”, nel lato Ovest della bussola della Guerra
Fredda. Moro dava fastidio ad interessi di volta in volta politici, strategici,
militari, economici, imprenditoriali e finanziari riconducibili a taluni ambienti
americani, inglesi, italiani o “italoamericani”. L’anticomunismo di carattere
fanatico o viscerale e quello più pragmatico dei businessmen, degli uomini di
affari e dei faccendieri hanno fatto il resto. E’una tesi che ha parecchio da
condividere con quella dello storico americano Tarpley.
In quanto anticomunista per estrazione, Moro poteva essere
stato giudicato un “traditore” da tribunali mica poi tanto ignoti anche se poi
lo statista cercava di convincere che non c’era contraddizione fra la sua avversione
al comunismo e le sue “aperture” come ha anche scritto ad interlocutori
americani. Da uomo di centro cercava di mantenere il paese nelle redini di una
DC che non poteva più chiudersi di fronte alle istanze riformatrici. Si
trattava anche di “rinnovare” il partito scudocrociato arginando al tempo
stesso l’avanzata delle sinistre che si presentavano sempre più come le sole
forze capaci di imporre le riforme necessarie. In generale non venne capito…Non
si comprese che si trattava essenzialmente di un democristiano DOC che guardava
a sinistra per mangiare terreno ai partiti di sinistra. Per ottenere le tiepide
aperture da parte dell’amministrazione Kennedy nei confronti del centrosinistra
fondato sull’intesa DC – PSI Moro faticò non poco. Altri cominciarono a
trattarlo alla stregua di un nemico da eliminare, un venduto ai comunisti che
avrebbe aperto le porte alla loro progressiva presa di potere. Altri ancora
rifiutavano semplicemente che il paese andasse nella direzione auspicata da
Moro. Una miscela esplosiva per quei tempi e non solo…
Tutto inizia forse nel lontano 1964…
L’inizio è la fine…
Nel corso di questo viaggio faremo spesso ricorso agli
articoli inquietanti ed allusivi di un curioso giornalista, Mino Pecorelli,
conosciuto anche per essere stato fra la schiera ristrettissima di persone a
conoscenza dei più scottanti retroscena del caso Moro come il “mistero” del
covo di via Gradoli e della sua scoperta. Con ottime entrature nella massoneria
e nei servizi segreti e ancora nel mondo politico ed economico finanziario,
Pecorelli verrà assassinato vicino alla redazione del suo piccolo giornale il
20 marzo del 1979 da sicari presumibilmente tratti dal sottobosco criminale
della banda della Magliana. Quasi certamente le ragioni della sua morte stanno nei
segreti attinenti all’affaire Moro di cui era depositario e nella sua
intenzione di pubblicarli. Un giornalista “kamikaze”, quindi, alla ricerca
dello “scoop mortale”, secondo l’efficace titolo di un vecchio libro su
Pecorelli scritto dalla giornalista de “Il Messaggero” Rita Di Giovacchino.
Quel che è più sconcertante è che il bizzarro giornalista si era già occupato
per la prima volta di un tentativo di colpire Moro nel lontano 1967, in un articolo su
“Mondo d’Oggi”, foglio che tra i finanziatori annoverava probabilmente anche
L’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Nell’articolo senza firma e dal titolo
“Dovevo uccidere Moro” vennero rivelati i contorni e i particolari di un
tentativo di sequestrare e, nel caso, assassinare lo statista democristiano colpevole
di aver consentito l’accesso al governo al PSI, modalità che richiamano appunto
alla mente il sequestro brigatista. Quel progetto criminoso risaliva al 1964,
l’anno della grave crisi di governo del primo centrosinistra e del “rumor di
sciabole” del ricatto golpista del generale dei carabinieri De Lorenzo
incoraggiato dal Presidente della Repubblica Antonio Segni. Quel sequestro
poteva avere qualcosa a che vedere con il Piano SOLO dei carabinieri
“delorenziani” ? Proseguiamo… Secondo l’informatissimo Pecorelli l’agguato
avrebbe dovuto essere realizzato da un commando agli ordini del colonnello dei
paracadutisti Roberto Podestà già istruttore di truppe speciali. La congiura
sarebbe stata ideata da alcune personalità politiche fra cui spiccava un ex Ministro
della Difesa di cui diremo più avanti. Questo ex Ministro avrebbe fatto da
trait d’union fra i “politici” e gli esecutori del piano. Così scriveva
Pecorelli:
“Podestà avrebbe comandato un reparto di ranger e dopo aver
messo fuori combattimento la guardia del corpo del presidente, lo avrebbe fatto
prigioniero trasferendolo in una località sconosciuta. (…) Stando a quello che
dichiara l’ufficiale, in un giorno imprecisato del 1964 egli fu avvicinato da
un funzionario di un non precisato ministero, il quale lo informò che alcuni
alti personaggi avevano bisogno della sua opera di soldato e patriota. Il
piano, secondo il Podestà, prevedeva di eliminare l’onorevole Moro, già allora
presidente del Consiglio, e di fare in modo che la colpa ricadesse su elementi
di sinistra. Purtroppo, per gli ideatori del colpo, tutto andò a monte perché
intanto si erano venuti a modificare alcuni presupposti per un cambiamento di
regime. I motivi del presupposto disagio erano venuti a cadere inoltre era
stato eletto il nuovo presidente della Repubblica nella persona dell’onorevole
Saragat. (…) Podestà aveva una serie di cartine nelle quali erano riportati i
tragitti abituali del presidente del Consiglio Moro, con tutti gli orari, il
nome delle persone al seguito, il numero preciso degli agenti della scorta
presidenziale, che sorvegliano la sicurezza del presidente. Inoltre l’ufficiale
dei paracadutisti, che a suo dire avrebbe dovuto portare a termine
l’incredibile missione, era in possesso di una serie di fotografie della casa
dell’on. Moro e di una lista completa di tutte le guardie speciali che si
alternavano alla vigilanza del presidente del Consiglio. Di queste guardie, un
rapporto aggiornato in possesso di Podestà dava tutti i dati fisici e morali:
il peso, la probabile forza fisica, il coraggio, lo spirito di iniziativa e di
decisione. Inoltre esisteva anche un progetto di corruzione di queste guardie
del corpo. Una volta impadronitosi del presidente del Consiglio, Podestà e suoi
uomini lo avrebbero condotto, come si è detto, in una località segreta.
L’ufficiale dei paracadutisti ha aggiunto, per colorire il dramma del racconto,
che durante la prigionia, Moro avrebbe potuto essere ucciso: questa evenienza
veniva lasciata a discrezione di chi avrebbe dato ordini per lo svolgersi delle
varie fasi del colpo militare.”
Scritto nel novembre 1967, questo articolo costò la chiusura
del foglio su cui i servizi segreti dovevano esercitare un’influenza non
indifferente. Quello che sarebbe accaduto una decina di anni dopo circa avrebbe
gettato luce sulla reale credibilità e attendibilità del colonnello dei
paracadutisti.
Le analogie fra il piano di sequestro del 1964 e l’azione
brigatista del 1978 sono tante ed evidenti. Secondo il progetto rivelato dal
colonnello Podestà le responsabilità del sequestro avrebbero dovuto essere
indirizzate verso spezzoni della sinistra. A quei tempi, e neanche tre anni
dopo, quando Pecorelli scrisse l’articolo in oggetto, le BR non esistevano
ancora. Nel 1978 ci avrebbero pensato loro a rapire e poi assassinare
l’onorevole Moro senza che ci fosse bisogno di attuare alcuna opera di
“depistaggio” per incolpare l’estrema sinistra. Dallo scritto, però, emerge
anche che l’azione doveva essere portata a termine da un commando di uomini
provenienti per la maggior parte certamente da corpi speciali o, comunque,
molto preparati militarmente alla guida di un ufficiale dei parà. Qualcosa che
potrebbe far pensare ai nuclei e alle cellule più specializzate della rete
atlantica STAY BEHIND. In ogni caso, a parte l’utilizzo di uomini addestrati e
preparati dal punto di vista militare, niente poteva essere lasciato
all’improvvisazione. I congiurati e i loro esecutori erano ben attrezzati e ben
informati e non si può neanche dire il contrario dei brigatisti che agirono quattordici
anni dopo. Certo il commando brigatista che assaltò la scorta del Presidente
della DC non poteva e non può essere considerato alla stregua di un gruppo
raccogliticcio di pseudoterroristi o di guerriglieri urbani improvvisati. Erano
bene informati su tragitti, uomini della scorta, ecc… Quindi possedevano fonti
di prima qualità con talpe nei ministeri. Dalle varie inchieste sulla strage di
via Fani sappiamo che i nessuno dei brigatisti arrestati possiede particolari
capacità militari come lo stesso Moretti ha ammesso. Eppure c’è chi sparo a
raffica con un precisione millimetrica annientando gli uomini della scorta e
avendo cura di “risparmiare” Moro. Chi è esperto nel campo di queste azioni
basate sull’”imboscata” ha dovuto ammettere che l’operazione brigatista in via
Fani non ha eguali nei paesi occidentali che pure sono stati testimoni di
parecchi episodi di “terrorismo” di “alto livello”. Ciò significa che, o hanno
partecipato all’azione brigatisti che non conosciamo e particolarmente abili
nell’uso delle armi a corto raggio o i brigatisti sono stati affiancati da
altri soggetti più preparati dal punto di vista militare. In particolare
risulta che una sola arma abbia espulso la metà dei colpi sparati nell’agguato.
Un altro particolare importante, emerso da una perizia della Questura di Roma
secretata per venti anni, riguarda la qualità di una parte di bossoli di
proiettile rinvenuti in via Fani che risultava rivestita di una particolare
vernice protettiva. Tali proiettili “in dotazione a forze non convenzionali”
provenivano da un deposito nell’Italia centro settentrionale le cui chiavi
erano in possesso di sole sei persone. Forze non convenzionali sul tipi delle
STAY BEHIND, di GLADIO o similari ? Inoltre se in caso di realizzazione del
sequestro nel 1964 il destino di vita o di morte dell’allora Presidente del
Consiglio dipendeva discrezionalmente da chi dirigeva quell’operazione
militare, è possibile che tale situazione si sarebbe presentata fra il marzo e
il maggio del 1978 ? Se così fosse… Se la vita dell’ostaggio dipendeva
realmente dalla volontà e dalla discrezionalità di chi dirigeva i carcerieri di
Moro non potremmo forse essere costretti ad ammettere che la successiva disputa
fra “fermezza” e “trattativa” e le successive vere e presunte trattative e i
tentativi di approccio con i brigatisti furono inevitabilmente inutili ed
ininfluenti ? I giochi che furono fatti successivamente sulla pelle
dell’ostaggio non furono forse nient’altro che giochi politici e di potere in
cui le varie parti coinvolte pensavano di trarre il maggior profitto e
beneficio dall’esito del sequestro. A mio parere quando Moro cadde nelle mani
delle BR, quel 16 marzo, la sua sorte era segnata per l’ottanta per cento che è
diventato cento per cento quando l’uomo politico democristiano ha pensato di
salvarsi dispensando scottanti rivelazioni.
L’esistenza di questo piano dimostrerebbe come in Italia la
lotta “politica” sia stata condotta anche con spreco di strumenti mafiosi,
terroristici e delinquenziali, il che non dovrebbe stupire molto. Ma chi era,
invece il misterioso ex Ministro della Difesa R. – come lo aveva siglato
Pecorelli sul suo articolo – che per questo gruppo di congiurati politici
faceva da “ufficiale di collegamento” con il colonnello Podestà ?
Il profilo si adatta quasi alla perfezione con l’ex Ministro
della Difesa repubblicano Randolfo Pacciardi. Già volontario per le Brigate
Internazionali durante la guerra civile spagnola, convinto antifascista e
ultralaico, dopo la guerra Pacciardi aveva virato verso l’anticomunismo più
spinto nel nuovo clima della Guerra Fredda. Massone e vicino ai circoli
massonici americani, da Ministro della Difesa aveva stretto rapporti molto
forti con l’ambasciatrice americana Claire Booth Luce con la quale condivideva
la radicale avversione nei confronti dei comunisti. Fra la fine degli anni
Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta Pacciardi aveva partecipato a diversi
convegni anche promossi nell’ambito della NATO in cui veniva affrontato il tema
della guerra politico – ideologia – militare all’Unione Sovietica. Il suo modo
di concepire tale battaglia convergerà con le concezioni dell’OAS,
l’organizzazione terroristica francese colonialista che si opponeva
all’indipendenza algerina a suon di bombe. La consulenza di ex militanti dell’OAS
sarà molto preziosa per la nuova guerra “non ortodossa” e “a bassa intensità”
condotta dagli organismi della NATO e avrà un ruolo non secondario nella
diffusione dell’ondata dell’”euroterrorismo” nei decenni successivi. Secondo i
“miliziani” dell’OAS, naturalmente anticomunisti, la cosiddetta
decolonizzazione non era altro che l’esito di un complotto comunista
internazionale a cui opporsi con ogni mezzo. Principalmente occorreva liberarsi
della vecchia discriminante “antifascista” per ergere quella anticomunista in
maniera dura e decisa. Cardine di questo “scontro di civiltà” contro il
comunismo doveva quindi essere l’alleanza fra quelli che un tempo erano stati
acerrimi nemici: gli antifascisti – specie quelli di matrice “atlantica” – e i
nazifascisti. In effetti nell’OAS erano confluiti, oltre agli ex
collaborazionisti, ex partigiani e deportati. A Lisbona ex aderenti dell’OAS
fonderanno la centrale terroristica Aginter Press, centro di collegamento
internazionale dell’estrema destra europea ed anche in rapporti con la CIA e la NATO. L ’Aginter Press ha
sicuramente avuto qualche ruolo nella “strategia della tensione” italiana,
soprattutto per quel che riguarda la strage di piazza Fontana e le bombe a
Milano e Roma del 12 dicembre 1969, e ad essa facevano riferimento le maggiori
organizzazione neofasciste italiane Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Anche
Pacciardi si convincerà che la guerra la comunismo richiedeva un’alleanza più
stabile con i neofascisti. Queste frequentazioni gli costeranno l’espulsione
dal PRI. Successivamente fonderà un piccolo movimento ispirato al
presidenzialismo gaullista , Nuova Repubblica, a cui aderirà un nutrito gruppo
di ex repubblichini ed ex fascisti come Accame e Pisanò.
Ovviamente contrario alla svolta del centrosinistra così
sostenuta dall’onorevole Moro in quanto giudicato il primo passo verso la
conquista del potere da parte dei comunisti, Pacciardi, da ex Ministro della
Difesa si poteva trovare nelle condizioni ideali per avvicinare elementi dei
corpi speciali o non convenzionali e convincerli a partecipare alla congiura
facendo leva sui sentimenti patriottici e nazionalisti. In definitiva Pacciardi
faceva parte di quella schiera di “estremisti di centro” che avevano deposto
l’abituale antifascismo per abbracciare l’anticomunismo tipico degli anni della
Guerra Fredda. “Estremista di centro” come lo furono il partigiano liberale e
monarchico dalle amicizie americane ed inglesi Edgardo Sogno, il partigiano
“bianco” Fumagalli fondatore dell’ambigua formazione terroristica MAR e l’ex
Ministro socialdemocratico Ivan Matteo Lombardo. Secondo i piani golpisti del
generale De Lorenzo Pacciardi avrebbe dovuto entrare nel Gabinetto del Governo
provvisorio così auspicato da Confindustria, Confagricoltura, e altri
potentati. Poi, probabilmente, il piano SOLO divenne qualcos’altro: da piano
golpista dell’Arma dei carabinieri mutò in manovra ricattatoria nei confronti
di Moro e Nenni per attenuare i propositi riformisti della futura compagine di
centrosinistra. In questo modo anche i progetti golpisti sfumarono. Comunque la
partecipazione al futuro governo golpista ed emergenziale risulta un elemento
per sostenere che il piano di sequestro dell’allora Presidente del Consiglio
Moro aveva qualche attinenza con il piano SOLO e, anzi, poteva costituire il
“segnale” per avviare l’intera operazione. Dieci anni dopo secondo i piani del
nuovo tentativo di “golpe” da parte dell’ex partigiano “bianco” Sogno,
Pacciardi avrebbe dovuto essere il Primo Ministro del futuro governo.
Sembra che Pacciardi sia stato il prezzemolo di gran parte
delle manovre più o meno golpisti che hanno afflitto la Repubblica.
In definitiva la vita politica di Moro era già nel mirino
negli anni Sessanta e quando verrà perpetrata la strage di piazza Fontana lo
statista democristiano, allora Ministro degli Esteri, in seduta al Consiglio
d’Europa a Parigi, sarà costretto a tornare in Italia mentre qualcuno teme per
la sua vita.
Da qualche tempo, in seguito ai fallimenti riformatori del
centrosinistra, Moro aveva già lanciato la cosiddetta “strategia
dell’attenzione”, la possibilità di collaborare con un PCI rinnovato e
“democratizzato”.
Ma, invece, le circostanza che portano il piano di sequestro
del 1964 ad assomigliare così tanto all’operazione brigatista di quattordici
anni dopo può veramente significare che la fine avrebbe coinciso con l’inizio ?
Bagaglino e servizi “ultrasegreti”
“La casa – Gli uomini di Moro sono quindici. Ben poca cosa
se si pensa che Enrico III di Valois quattro secoli fa ne aveva quarantacinque.
Il che non evitò di cadere sotto il pugnale del frate domenicano Giacomo
Clément. I quindici uomini di Moro si muovono alle dirette dipendenze di un
questore, il Dott. Giulio Saetta, ispettore generale di P.S. presso il
Ministero dell’Interno. Questo quindici valorosi, reclutati fra il fior fiore
della Pubblica Sicurezza e dei carabinieri, sono comandati in permanenza al
servizio di vigilanza. La loro base è l’abitazione stessa del presidente del
Consiglio, sita in via Forte del Trionfale, una traversa della più nota via
Trionfale (…). Il servizio consiste soprattutto nella vigilanza della casa del
Presidente e nella scorta durante gli spostamenti della sua preziosa persona
(…).
L’ingresso al numero 79 di via Forte Trionfale è denominato
da una guardiola a vetri. Il complesso delle tre palazzine non ha ingressi. ,
perciò chiunque entri non può sfuggire al controllo del corpo di guardia
stabilito nella portineria. Qui stazionano in permanenza quattro agenti, due
dell’Ispettorato generale e due del locale commissariato. Questi uomini
conoscono ormai tutti gli abitanti del caseggiato, nessuna “faccia nuova” ha la
speranza di passare inosservata. La sorveglianza della casa non potrebbe,
insomma, essere organizzata meglio, bisogna darne atto al questore Saetta. Le dolenti
note cominciano, invece, quando dalla casa si passa alla strada. Qui,
nonostante l’indubbia buona volontà, permangono serie e gravi preoccupazioni.
Vediamo il perché. Il Presidente Moro, da uomo ordinato e metodico che è, ha
una giornata rigorosamente organizzata. Ciò, se dispone a favore
dell’equilibrio interno del Presidente, lo rende purtroppo maggiormente
vulnerabile. La prudenza consiglierebbe, infatti, una più larga varietà di
movimenti. Invece Moro, temperamento impulsivo e spericolato, non rinuncia alle
sue abitudini neanche se ne va di mezzo la propria sicurezza. Si configura così
uno “schema – tipo” di movimenti che sembra essere fatto apposta per essere
sfruttato da eventuali attentatori. Nell’ambito di questo schema, già di per sé
così rischioso, l’on. Moro commette poi talune imprudenze, davvero
imperdonabili, che qui avremo modo di sottolineare.
Il momento più pericoloso della giornata dell’on. Moro è
l’uscita del mattino. Gli altri momenti sono tutti più o meno “atipici”,
variano cioè da un giorno all’altro, a seconda degli impegni. Inquadrarli in
uno “schema”risulta pertanto praticamente impossibile. L’uscita di casa,
invece, avviene sempre nelle stesse circostanze. Schematizzarla è quindi
elementare. L’o., Moro lascia la sua abitazione alle 8,30 in punto. Prende posto
insieme alla consorte su una “Flaminia” blu ministeriale o su un “Alfa 2600” dello stesso colore.
Questa delle 8,30 è l’ipotesi che configureremo nello “schema A”. Tracceremo
poi uno “schema B” per i giorni in cui, come spesso avviene, il Presidente Moro
si muove di casa mezz’ora più tardi, alle 9.
Schema A. (Segue meticolosa descrizione dell’ordine di
partenza delle macchine, delle persone a bordo e del percorso: via del Forte
Trionfale, via Trionfale, piazza di Monte Gaudio, sagrato della chiesa di San
Francesco a Monte Mario, ndr) In chiesa l’on. Moro prende posto al terz’ultimo
banco della fila di destra. Un agente si pone alle sue spalle, un altro resta
alla porta, un terzo occupa l’ultimo banco della fila a sinistra. Gli altri si
fermano all’esterno e vigilano l’ingresso al tempio e le adiacenze. L’on, Moro
segue attentamente tutta la
Messa (…). Finalmente ricevuta la particola, il Presidente e
la moglie fanno ritorno al terzultimo banco e seguono pienamente il resto della
funzione. Lui resta un po’ seduto, lei invece si inginocchia, il capo avvolto
in uno sbiadito fazzoletto da testa annodato sotto la gonna, il cappotto color
cenere sempre abbottonato. Nessuno che non la conosca la prenderebbe per moglie
del Presidente del Consiglio. Terminata la messa, Moro e la moglie risalgono
sull’auto ministeriale, mentre la scorta si dispone a ventaglio ai loro lati.
Poi l’autocolonna, sempre una “Giulia” bianca in testa, riprende la marcia.
Viene di nuovo percorsa la via Trionfale, questa volta in senso inverso. Il
Presidente fa ritorno a casa. Alle 9,05 le tre automobili sono di nuovo davanti
al n. 79 di via del Forte Trionfale. Come mai ? Semplice: i coniugi Moro sono
digiuni per via della Comunione; tornano a casa per fare colazione. Il
breakfast dura esattamente quindici minuti. Alle 9,20 il Presidente è di nuovo
fuori, questa volta senza la moglie, che resta a casa mente lui si dirige
velocemente a Palazzo Chigi. Il cortesi rimette in marcia per la terza volta,
percorre via di Forte Trionfale, via Trionfale, quindi poco oltre la chiesa di
San Francesco, gira a sinistra, prende via Igea fino a via della Camilluccia,
la segue per un breve tratto, poi volta a sinistra per la rapidissima via
Edmondo De Amicis, che, dall’alto della Camilluccia porta d’un balzo al piano
dello Stadio Olimpico. Questa discesa, che i romani chiamano “K-2” , deve essere percorsa in
molti tratti quasi a passo d’uomo per i continui angolatissimi tourniquès di
cui è seminata. Inoltre, lungo i lati della strada si stende il fitto bosco
della Farnesina, nel quale può celarsi qualunque insidia (…). Pericoli dello”
schema A” – Abbiamo detto all’inizio che i rischi maggiori che l’on. Moro deve
affrontare dipendono proprio dal ripetersi cronometrico dei suoi movimenti,
ogni giorno, nel tragitto casa – chiesa – Palazzo Chigi. Esaminiamo ora, una
per una, le possibili insidie. (Segue la descrizione dei pericoli che, ad
avviso dell’articolista, possono presentarsi nei seguenti punti: Uscita di casa
– incrocio di via Trionfale – davanti alla chiesa di San Francesco – dentro la
chiesa di San Francesco, ndr).
Abbiamo finora parlato dei pericoli di cui è cosparso lo
“schema A”. Lo “schema B” differisce dal precedente solo perché entra in
funzione nei giorni in cui invece di uscire alle 8,30 l’on. Moro esce di casa
alla 9. In
questi casi il corteo si dirige sempre in via Trionfale, arriva alla chiesa di
San Francesco, ma non si ferma, prosegue ancora un po’ , quindi svolta a
sinistra per via Mario Fani e poi per via della Camilluccia, fino ad arrivare
alla chiesa di Santa Chiara ai due Pini, la chiesa bene dei “vignaclarini”.
Quando fa tardi, infatti, il Presidente perde la messa di San Francesco, che
comincia alle 8,30, e deve perciò assistere a quella delle 9 di Santa Chiara. Dopo
la Messa ,
tutto si svolge come descritto nello “schema A”, compreso il ritorno a casa e
l’uscita successiva dopo 15 minuti”.
Non si tratta di un rapporto dei servizi segreti e neanche
di un estratto dell’inchiesta dei brigatisti sui movimenti dell’onorevole Moro,
ma, sorprendentemente, di un articolo contenuto in un opuscolo corredato di
scritti “satirici” e cabarettistici del Bagaglino, il celebre cabaret romano
che da quarant’anni offre quella “satira” di dubbio gusto e ossequiosa verso il
Potere, così come piace al senatore a vita Andreotti. “Satira di destra”, si
direbbe… L’autore è il “timoniere” del Bagaglino, Pier Francesco Pingitore,
noto anche come regista di commediole all’italiana interpretate spesso dal
comico Pippo Franco, altra colonna del Bagaglino. C’è da chiedersi perché un
autore cabarettistico si occupi dell’incolumità del Presidente del Consiglio…
Sulla data in cui fu scritto questo curioso articolo pare non esservi
concordanza: secondo il già senatore Sergio Flamigni, esperto dell’affaire Moro
e di altri misteri italiani, lo scritto risalirebbe al 1968, mentre per il
senatore Pellegrino, già Presidente della Commissione Parlamentare di Indagine
sul terrorismo e le stragi, fu pubblicato tre anni prima del sequestro e
dell’assassinio di Aldo Moro, ossia nel 1975. In entrambi i casi,
negli anni citati, Moro era Presidente del Consiglio. Un fatto è certo: la
precisione con cui sono indicati orari e tragitti indica che quanto è stato
scritto non può essere farina del sacco di un comico o di un cabarettista. Le
informazioni devono essere state passate da qualcun altro… Il contributo
“satirico” dell’estensore più che muovere al riso poi, risulta piuttosto
inquietante fin dal titolo, “Dio salvi il Presidente”, come a dire solo
Padreterno può salvaguardare l’incolumità del Presidente del Consiglio. A
posteriori l’ironia sul carattere “abitudinario” ma anche “spericolato” di Moro
suona piuttosto irridente e sinistra. Il tono generale sembra proprio essere
quello dell’avvertimento e della minaccia che traspaiono fra le righe di un
foglietto burlesco. Chi ha trasmesso tutti i dati a Pingitore doveva essere ben
consapevole di quello che faceva… La beffa più atroce di “Dio salvi il
Presidente” potrebbe – e sottolineo il condizionale – essere stata consumata se
tale libello fosse entrato in possesso delle BR. Avrebbe risparmiato tempo e
fatica ai brigatisti nella loro inchiesta. Inoltre nei primi mesi del 1978 Moro
non era più Presidente del Consiglio ma solamente Presidente del suo partito,
carica più onorifica che realmente prestigiosa e quindi la scorta era stata
ridotta.
A rifletterci bene la datazione avanzata dal senatore
Pellegrino, notoriamente uomo misurato, dovrebbe inquietare di più di quella
proposta nei libri del “dietrologo” Flamigni. Nel 1968, anno della cosiddetta
“strategia dell’attenzione”, l’articolo di Pingitore poteva avere
principalmente l’effetto di un minaccioso avvertimento e poco più, ma il 1975 è
l’anno della riorganizzazione brigatista, della costituzione della colonna romana
la cui funzione sarà principalmente quella di portare a compimento l’operazione
Moro e verso la sua conclusione il capo brigatista Moretti prende in affitto il
famoso appartamento sito in via Gradoli 96. La palazzina risulterà infestata di
appartamenti riconducibili ad immobiliari i cui amministratori erano legati ai
servizi segreti civili, il SISDE. D’altronde tutta la via Gradoli mostrerà
aspetti insospettabili e singolari: uffici dei servizi segreti, appartamenti
abitati da informatori e confidente della polizia, rifugi per stranieri in
clandestinità e per malavitosi latitanti, covi di estremisti di destra e di
sinistra. Fra le nuove ipotesi vi è quella che per un certo periodo di tempo
Moro possa essere stato tenuto in ostaggio o in via Gradoli 96 o in un altro
covo brigatista situato nella predetta via. E’ comunque curioso che un capo
brigatista scelga di impiantare il quartier generale dell’organizzazione
proprio in una zona del genere sotto gli occhi vigili di più di un servizio
segreto. D’altronde tutta la vicenda che ruota intorno alla via Gradoli è molto
torbida fino a quel 18 aprile 1978,
in pieno sequestro Moro, quando fu “pilotata” al sua
scoperta praticamente in contemporanea con la diffusione del falso comunicato
brigatista numero 7 redatto da un falsario e trafficante di armi in rapporti
con la banda della Magliana e con i servizi segreti. L’idea del falso
comunicato era stata sviluppata nell’ambito dei Comitati di Crisi insediati per
volontà del Ministro degli Interni Cossiga e con il decisivo contributo
dell’”esperto americano Pieczenick. Quei comitati erano infarciti di elementi
piduisti, filoamericani e piduisti… Fra il 1974 e il 1975 erano già note le
intenzioni brigatiste di colpire l’onorevole Moro negli ambienti dei servizi
segreti, come vedremo anche dagli articoli del solito Pecorelli. Invece di
rafforzare le misure di sicurezza e occuparsi seriamente di neutralizzare i
progetti brigatisti, qualcuno, in quel 1975, sempre che la datazione
dell’articolo sia corretta, ha fatto pubblicare l’opuscoletto del Bagaglino
diffondendo i particolari sulle misure di sicurezza a beneficio dell’allora
Presidente del Consiglio. Lasciando pure da parte i brigatisti, in un periodo
in cui, comunque, Roma era sconvolta da episodi sempre più frequenti e diffusi
di grave violenza politica e pseudopolitica. Ma possiamo veramente ipotizzare
che personaggi dei servizi segreti furono i reali ispiratori di quanto redatto
dal Bagaglino. Lasciando un minimo di margine all’incertezza, oggi, grazie al
libro della giornalista Stefania Limiti “L’Anello della Repubblica – la
scoperta di un nuovo servizio segreto. Dal fascismo alle Brigate rosse”
sappiamo che tale tesi potrebbe essere supportata e corroborata da elementi più
che validi. Il cabaret Bagaglino era di proprietà di un curioso personaggio,
tale Felice Fulchignoni. Ma chi era questo Fulchignoni ?
Messinese di origine, già fascista e repubblichino, capo
dell’Ufficio propaganda del direttorio nazionale del PNF, dopo la guerra
Fulchignoni si è lanciato in attività varie come impresario, produttore
cinematografico, speculatore, ecc… Oltre ad essere proprietario del Bagaglino,
ha fondato l’agenzia di stampa Adn Kronos. Iscritto a libro paga nel SIFAR, il
curioso faccendiere faceva parte di un servizio “ultrasegreto” operante fin dai
tempi della Seconda Guerra Mondiale e scoperto solo recentemente grazie al
contributo dello storico Aldo Giannuli. Anello o “Noto servizio” – questi erano
i nomi in codice di questo misterioso servizio segreto – è stato allestito a
guerra ancora in corso da Mario Roatta, ex capo del SIM, invischiato
probabilmente nell’assassinio dei fratelli Rosselli. Dopo essersi affidato per
un breve periodo alle mani di tale Otimsky, un misterioso ufficiale ebreo
polacco che forse aveva un’importante voce in capitolo nei servizi segreti
israeliani, l’Anello è stato diretto per anni da un ex ufficiale dell’aviazione
della RSI, Adalberto Titta. Ancora poco si sa di questa “cellula” ultrasegreta
addetta ai dirty jobs, ma possiamo affermare con certezza che era alle
dipendenze delle massime autorità della Prima Repubblica democristiana. Secondo
la giornalista, il vero referente politico dell’Anello sarebbe stato
l’onorevole Andreotti che a lungo ha ricoperto la carica di Ministro della
Difesa e ha siglato i principali accordi segreti in ambito NATO. Compito
dell’Anello, che svolgeva le sue scottanti mansioni in parallelo con i servizi
segreti ufficiali con il concorso di ex badogliani, ex repubblichini,
imprenditori, finanzieri, faccendieri e malavitosi, sarebbe stato quello di
contrastare l’avanzata dei comunisti utilizzando strumenti non convenzionali e
“non militari”. Fra l’altro sembra che avesse avuto un ruolo di primi piano
nella “strategia della tensione” e nell’attivo sostegno al MAR di Fumagalli,
nell’affare Mi. Fo. Biali sulle tangenti petrolifere, nella fuga dell’ufficiale
nazista Kappler dall’ospedale Celio e nelle trattative per la liberazione
dell’assessore democristiano Cirillo rapito dalle BR senzaniane. E,
naturalmente nell’affaire Moro, come illustreremo…
Secondo una fonte anonima e non confermata Fulchignoni si
trovava accanto a Giulio Andreotti e al futuro Gran Maestro della P2 Licio
Gelli durante la cerimonia di inaugurazione dello stabilimento Permaflex di
Prato nel 1965. Avrebbe presenziato in rappresentanza proprio del Titta, il
capo dell’Anello. Se così fosse bisognerebbe ammettere che all’interno di
questo servizio “ultrasegreto” Fulchignoni ricopriva un ruolo di prima
grandezza. Ma quale ruolo ricopriva al suo interno ?
E’ sicuro che il Fulchignoni si legò anche finanziariamente
al PSI e in particolar modo con le sue correnti autonomiste e di destra, ossia
quelle che stavano intraprendendo la strada da una sempre maggiore autonomia
dal PCI. Dal libro di Stefania Limiti apprendiamo come fosse notevole
l’interesse dell’Anello nei confronti del PSI all’interno del quale si cercava
di favorire ed influenzare le correnti di destra e di neutralizzare quelle di
sinistra ancora giudicate troppo legate al carro comunista. In particolare,
oltre alla corruzione e al ricatto, non erano esclusi strumenti più “drastici”
come l’assassinio tramite simulazione di incidente. Ed è proprio quel che è
accaduto più di una volta… Costantemente nel mirino dell’Anello fu il sindaco
socialista di Milano Aldo Aniasi, l’ex partigiano dal nome di battaglia Iso.
Peraltro, anni dopo, grazie anche al sequestro del figlio di Francesco De
Martino, il più autorevole degli esponenti della sinistra socialista, da parte
di gangster vicini al bandito Turatello, che il PSI sarà egemonizzato dall’area
di destra sempre più saldamente nelle mani di Craxi. La liberazione fu pagata
con soldi del Banco Ambrosiano del piduista Calvi. Quel sequestro impressionò
molto l’onorevole Moro.
Altra era invece la specialità di Fulchignoni, imprenditore
e speculatore che si legò soprattutto al Ministro dei Lavori Pubblici, il
socialista autonomista Giacomo Mancini. Il Capo Ufficio Stampa del Ministro
Mancini, Antonio Landolfi allestì a Roma l’agenzia stampa “Presenza Socialista”
con la collaborazione di Fulchignoni. Esperto di propaganda e pubblicità nel
cinema e nella televisione, Fulchignoni impose una gestione finanziaria non
molto “ortodossa” e remunerativa. Sull’onorevole socialista calabrese Giacomo
Mancini, destinatario di finanziamenti del bancarottiere mafioso e piduista
Sindona e indicato dal Piano di Rinascita Democratica della P2 di Gelli come
uno dei politici scelti per “rivitalizzare” il PSI, assieme al giovane astro
Bettino Craxi, val la pena di spendere qualche parola…
Più che per i rapporti con un uomo proveniente dalla destra
e legato ai servizi segreti come Fulchignoni, l’onorevole Mancini era
“chiacchierato” per i contatti non sporadici con talune zone del “sovversivismo
rosso”. D’altronde anche l’affaire Moro dimostrerebbe come talune aree del PSI
non avessero disdegnato di intraprendere rapporti con l’estrema sinistra. Per
chi ha vissuto quegli anni è noto come i socialisti fossero stati ben più
“aperti” dei comunisti nell’intercettare settori dell’elettorato giovanile che
militava io simpatizzava per gruppi della Nuova Sinistra. E quelli che si
avvicineranno al PSI (come anche al Partito Radicale) non saranno pochi…
Rispetto alle altre personalità del PSI, il socialista
autonomista Mancini ha coltivato relazioni particolarmente “pericolose”. In un
passato non molto lontano è stato coinvolto in inchieste giudiziarie in cui lo
si accusava di alimentare la “strategia della tensione” e di essere stato fra i
burattinai della rivolta di Reggio poi egemonizzata dai neofascisti. Da queste
accuse è passato indenne. Tante, davvero troppo le testimonianze, gli indizi e
i sospetti che riguardano, invece, il suo “civettare” con componenti della
sinistra extraparlamentare più agguerrita e “sovversiva” e non solo… Il solito
informatissimo giornalista piduista Mino Pecorelli lo presentava in un vecchio
articolo su OP del settembre 1975 come un generoso finanziatore di Lotta
Continua. In sostanza avrebbe foraggiato Sofri & c. ai fini della
“strategia della tensione”. La ragione principale dell’accanimento del
giornalista di destra e molto ben informato da fonti nei servizi segreti
risiede nell’amicizia e nell’alleanza con l’onorevole Giulio Andreotti che
secondo il libro di Stefania Limiti era il referente politico e probabile capo
dell’Anello. In quei tempi Pecorelli era particolarmente legato al piduista,
già direttore del SID Vito Miceli, anch’egli uomo di destra, coinvolto in
qualche modo nei retroscena del golpe Borghese e dell’organizzazione
paramilitare atlantica Rosa dei venti. Questa cordata dei “servizi segreti” si
contrapponeva in quel periodo a quella “andreottiana” dell’Ufficio D del SID
capeggiato da un altro piduista, Gianadelio Maletti, l’uomo che aveva raccolto
un copioso dossier sul golpe Borghese e sulle tangenti ricavate dal traffico di
armi e petrolio con la Libia ,
ma anche l’uomo che aveva protetto i neofascisti indagati per la strage di
piazza Fontana. Secondo la giornalista e scrittrice Rita Di Giovacchino,
Mancini era amico del generale Maletti. Una guerra curiosa, quella interna ai
servizi, in cui né Miceli né Maletti risulterà vincitore e si preferirà giocare
su altri cavalli di battaglia. Curiosa anche perché entrambe le fazioni ruotano
in qualche modo intorno alla loggia P2 e a Licio Gelli che, in qualche modo, si
incaricherà di mettere “ordine” nei servizi segreti. Mentre – se assumiamo per
vera l’ipotesi che l’opuscolo del Bagaglino è stato redatto nel 1975 – venivano
indirizzati foschi avvertimenti al Presidente del Consiglio Moro da parte di
Fulchignoni e dell’Anello dietro i probabili auspici di Andreotti, per
iniziativa di Landolfi - uomo vicino a Mancini, come abbiamo visto – veniva
costituito uno strano centro studi, il CERPET attorno al quale ruotavano
esponenti del PSI e dell’organizzazione parlamentare di estrema sinistra Potere
Operaio che di lì a poco si sarebbe sciolta confluendo nella vasta e variegata
area dell’Autonomia. Nel medesimo palazzo romano, in piazza Cesarini Sforza, si
installerà sia la sede del CERPET che della rivista dell’Autonomia organizzata
“Metropoli”. Buona parte del gruppo del centro studi coincideva con la
redazione di “Metropoli”. Oltre al noto Lanfranco Pace, figura di primo piano
della rivista dell’Autonomia romana, era il professore di fisica Franco Piperno
che insegnava all’Università di Cosenza. Già militante del PCI, Piperno si era
avvicinato all’onorevole calabrese Mancini quando era leader di Potere Operaio.
La circostanza che buona parte dei punti di riferimento dell’Autonomia fosse
anche stata a capo del movimento di sinistra extraparlamentare Potere Operaio
induce a ritenere che vi fosse stata una buona dose di continuità. Ancora più
importante, più di un elemento e di un indizio fanno pensare che frazioni
dell’Autonomia, così come altri gruppi armati, non siano stati estranei all’affaire
Moro e alla gestione del sequestro.
Da alcuni appunti del giornalista Pecorelli fatti
sequestrare dalla magistratura romana in seguito al suo assassinio, si avanza
addirittura il sospetto che Piperno fosse il vero capo delle BR e il “contatto
fra CIA/KGB e mafia da un lato e mafia/BR dall’altro”. In effetti anche la
criminalità organizzata pare avere avuto un ruolo non secondario nell’affaire
Moro. Secondo il giornalista inglese Philip Willan, esperto in misteri
italiani, Piperno era semplicemente “il capo dell’ala brigatista che voleva
Moro libero, quella legata alla frangia più violenta dell’Autonomia. Di sicuro,
per ammissione dello stesso Piperno, nell’estate del 1978 ebbe un incontro a
casa di un personaggio altoborghese romano alla presenza del capo brigatista
Moretti su cui non si è mai voluto fare luce.
Nel corso dei 55 giorni del sequestro Moro i contatti fra i
socialisti Craxi e Signorile e i leader dell’Autonomia romana Pace e Piperno da
un lato e fra questi ultimi e i brigatisti Morucci e Faranda, già militanti di
Potere Operaio dall’altro furono molto intensi specialmente dopo il 18 aprile,
giorno della scoperta pilotata del covo di via Gradoli 96 e del falso
comunicato brigatista numero 7. Il leader socialista Craxi si fece deciso
promotore della linea della “trattativa” per salvare Moro. Si trattava davvero
solo di salvare la vita dello statista democristiano o piuttosto di rilanciare
una rinnovata intesa fra DC e PSI che escludesse definitivamente il PCI, come,
in effetti, sarebbe accaduto con la formula del pentapartito ? Le cosiddette
“trattative” ebbero sicuramente più una valenza politica che umanitaria, come
si fece credere allora. Fra i personaggi di caratura politica Bettino Craxi si
situava sicuramente fra coloro che erano a conoscenza di determinati
particolari.
Secondo un’informativa del SISDE il segretario del PSI era
convinto che i suoi compagni di partito Mancini e Landolfi fossero stati
invischiati nel terrorismo. Un’altra sparata, Craxi la fece nel 1980 quando
sostenne che un suo vecchio ex compagno di partito nell’area autonomista, tale
Corrado Simioni, era il vero capo delle BR. Boutade ? Convinzione o sospetto ?
Craxi si rimangiò quanto affermato e Simioni commentò con parole del tipo che,
in fondo, accusandolo, Craxi avrebbe accusato anche sé stesso. Una dozzina di
anni dopo l’affermazione di Craxi verrà ripresa dal collaboratore Larini
nell’ambito dell’inchiesta Mani Pulite. Ma su Simioni e sulla scuola parigina
di lingue Hyperion su cui gravano ancora pesanti sospetti di aver fomentato
l’”euroterrorismo” accenneremo nel prossimo capitolo.
Nel contesto di quegli anni già carichi di violenza e di una
lotta politica che non escludeva mezzi estremi e delinquenziali forse non
devono stupire troppo questi approcci nei confronti dell’estrema sinistra da
parte di esponenti del PSI come Mancini. Sicuramente il tentativo di attrarre
fette consistenti di elettorato giovanile ha contato su talune scelte. Così si
può spiegare il finanziamento di Lotta Continua e il sostegno offerto a Potere
Operaio e frange dell’Autonomia, ma nel complesso il quadro si riempie di tinte
sempre più cupe soprattutto se grava il sospetto di rapporti non proprio
superficiali fra l’onorevole Mancini e l’enigmatico capo brigatista Senzani.
Conviene qui lasciar parlare un testimone, il pentito brigatista Galati vicino
alla frazione brigatista di Antonio Savasta:
“Durante i colloqui che Fenzi ebbe con me e Moretti, egli ci
informò dei contatti di Senzani con la ndrangheta in Calabria, finalizzati sia
a creare un rapporto operativo tra le Brigate Rosse – Fronte delle carceri – e
la mafia calabrese, che per l’immediato, all’attuazione di piani di evasione da
Lamezia Terme e da Palmi. Secondo Senzani qualsiasi iniziativa per l’evasione
da queste carceri non era possibile senza l’appoggio della mafia calabrese.
Nell’ambito di questi rapporti con la ndrangheta, la Ravazzi (la compagna di
Fenzi, NDA) manteneva rapporti con l’onorevole Mancini, il quale era ben
consapevole dell’appartenenza della donna alle Brigate Rosse. Il Fenzi mi disse
che durante la frequentazione di Mancini in Calabria, la donna incontrò più
volte Giovanni Senzani. Il Fenzi mi disse, inoltre, che Senzani manteneva
rapporti indiretti con l’area politica che faceva capo a Mancini (…) obiettivo
dell’onorevole Mancini era innanzitutto quello di creare un’area politica che
ostacolasse il PCI e un suo avvicinamento al governo. Secondo l’onorevole
Mancini, una estensione dell’area della lotta armata avrebbe certamente
danneggiato il PCI costringendolo ad assumere posizioni repressive e subalterne
alla Democrazia Cristiana (…). Nell’analisi che facevamo io, Fenzi e Moretti,
l’onorevole Mancini era ben consapevole dei limiti della lotta armata e quindi
dell’impossibilità di raggiungere certi traguardi offensivi. Dall’altra parte
egli sapeva che politicamente influenzava una gran parte di giovani e poteva
essere un elemento di pressione politica e anche una riserva di voti.” Se la
testimonianza resa dal brigatista è veritiera non può essere lasciato spazio a
dubbi circa la volontà dell’onorevole Mancini e probabilmente di esponenti di
aree affini del PSI di strumentalizzare la lotta armata e i gruppi della
sinistra extraparlamentare per danneggiare politicamente i “competitori”
politici del PCI. Non si può negare che, effettivamente, quanto più si è
diffuso il terrorismo “rosso” degli anni di Piombo tanto più il PCI ha dovuto
assumere posizioni più repressive perdendo fette non indifferenti di consenso.
Aggiungiamo poi che Mancini era alleato politico di Andreotti e che si avvaleva
della collaborazione di un uomo di destra appartenente al servizio
“ultrasegreto” Anello – di cui Andreotti era probabilmente il capo -.
Aggiungiamo anche l’inquietante anche se indiretto rapporto con il capo
brigatista Senzani che, come vedremo, oltre a “teorizzare” e praticare
pericolose alleanze fra l’organizzazione terroristica e la criminalità
organizzata dell’ndrangheta calabrese e della Nuova Camorra Organizzata di
Cutolo, pare essere stato legato a fazioni dei servizi segreti. Aspetti che
verranno approfonditi in seguito…
Per quel che concerne le perniciose relazioni fra la
criminalità organizzata e le BR, se Giovanni Senzani è stato il più
spregiudicato tessitore di questo genere di alleanze anche in precedenza, come
ha dovuto ammettere il brigatista “storico” Franceschini di fronte alla
Commissione Stragi e Terrorismo, l’organizzazione terrorista aveva dovuto
confrontarsi con le mafie.
Fra la fine del 1975 e il 1976, il periodo in cui veniva
rilanciata l’organizzazione brigatista, veniva creata la colonna romana e preso
in affitto l’appartamento “caldissimo” di via Gradoli 96, il capo brigatista
Moretti con la “compagna” Balzerai si recava a Catania in Sicilia e a Reggio
Calabria. Gli altri brigatisti negano che l’organizzazione fosse a conoscenza
di predetti viaggi. Difficile credere che il fine di quelle trasferte fosse
quello di impiantare nuove colonne in meridione. In ogni caso il capo
brigatista non può non aver trascurato di contattare emissari dei boss di Cosa
Nostra siciliana e della ndrangheta calabrese. In quel periodo, poi, fervevano
i preparativi dell’operazione Moro. La criminalità più o meno organizzata
(mafia italoamericana, Cosa Nostra siciliana, ndrangheta calabrese, Nuova
Camorra Organizzata, banda della Magliana e banda Turatello) entra a pieno
titolo nell’affaire Moro soprattutto nei tentativi naufragati di avviare
contatti per eventuali trattative con i brigatisti. Inoltre, quella della
criminalità organizzata, rappresenta un’altra “zona grigia” che si lambisce in
ugual misura i servizi segreti e le BR. Emblematica è tutta la vicenda del
falsario Toni Chicchiarelli, l’autore del falso comunicato brigatista del lago
della Duchessa. Un amico di Moro, il senatore democristiano Giovanniello
attribuì l’esecuzione dello statista a criminali comuni o a una componente
“delinquenziale” delle BR diversa da quelle comunemente note.
Tante quindi, troppe anomalie si concentrano sulle BR e
sull’operazione Moro, dai servizi segreti alla criminalità organizzata e
comune. Tornando alla connection fra le BR e aree del PSI, nel gennaio del 1985
il giornale di destra “Il Borghese” pubblicò una breve nota sotto la firma “Il
polveriere” che specificava particolari curiosi sull’arresto del capo
brigatista Senzani. Nel suo appartamento, in cui ci si sarebbe aspettati, ad
esempio, di trovare ritratti di Marx e del Che, si presenta invece in bella
vista un ritratto di Bettino Craxi. Vero non vero ?
Agli inizi del 1982, quando Senzani fu arrestato erano in
programma due gravissimi attentati a base di bazooka e di esplosivo. Uno,
dimostrativo, contro il Ministero di Grazia e Giustizia, , l’altro contro
palazzo Sturzo all’Eur, durante una riunione del Consiglio della DC avrebbe
provocato una strage e avrebbe avuto effetti devastanti dal punto di vista
politico. L’attentato avrebbe letteralmente piegato la DC. Secondo lo storico
Giuseppe De Lutiis , in un saggio sul libro della KAOS edizioni dedicato
all’affaire Moro “Sequestro di verità”, dell’azione terroristica avrebbe
beneficiato proprio il PSI in grado di raccogliere l’elettorato moderato
disperso. Lo stesso sequestro Cirillo di qualche tempo prima, di cui Senzani fu
l’indubbio ideatore, si è risolto in un tentativo di ricatto nei confronti
della DC da parte delle BR, camorra “cutoliana”, e di spezzoni dei servizi
segreti con tanto di pagamento di riscatto.
Secondo la testimonianza del brigatista Buzzati, fido
collaboratore di Senzani, quell’ondata terroristica si avvaleva della
consulenza tecnica di un misterioso personaggio francese, Paul Baudet che si
ritiene uomo di de Grossouvre, capo della GLADIO francese e stretto
collaboratore del Presidente della Repubblica francese, il socialista
Mitterrand. Baudet venne accusato di appartenere alla cosiddetta “cellula
dell’Eliseo” sicuramente in contatto con la già nominata scuola di lingue
Hyperion. Ma su questi argomenti, così come sugli oscuri rapporti fra Senzani e
i servizi segreti, torneremo…
Solo recentemente è stata presa in seria considerazione
l’ipotesi di un effettivo coinvolgimento del brigatista Senzani nell’operazione
Moro. D’altronde la storia della sua militanza nelle BR è sempre stata
piuttosto oscura. In un articolo allusivo e sibillino la rivista dell’Autonomia
“Metropoli” riterrà il brigatista “Blasco” (nome di battaglia di Senzani) il
reale responsabile dell’esecuzione di Moro, l’uomo da cui partì l’ordine. Vista
l’inclinazione di Senzani a coltivare amicizie pericolose anche nella
criminalità organizzata o comune non dovrebbe stupire. Quella componente
“delinquenziale” delle BR di cui parlava Giovanniello faceva veramente
riferimento a lui ?
E “Metropoli”, rivista di quell’area dell’Autonomia che si
era spesa per la trattativa durante il sequestro contattando i brigatisti che
“volevano salvare Moro”, voleva forse mostrare che non era assolutamente
d’accordo con la decisione finale dei brigatisti ?
E l’Anello ? Se la mano della misteriosa “cellula” parallela
ai servizi segreti ufficiali può essere messa in dubbio per quanto riguarda lo
scritto del Bagaglino, tuttavia sussistono pochi margini di incertezza sul suo
intervento attivo nell’affaire Moro. Un testimone, tale Michele Ristuccia,
amico e confidente del capo dell’Anello, Adalberto Titta, ha riferito alcune
rivelazioni di estremo interesse da parte di quest’ultimo. L’Anello entra
prepotentemente nei 55 giorni che sconvolsero - e sotto sotto ancora
sconvolgono - l’Italia in due circostanze di rilievo: l’agguato di via Fani e
le “trattative” sotterranee con i brigatisti con tanto di pagamento di
riscatto.
Innanzitutto, secondo le parole del Titta, all’azione in via
Fani, avrebbe partecipato un uomo dell’Anello meridionale infiltrato nelle BR,
un malavitoso calabrese. Non si è mai saputa l’identità del misterioso
componente del “superservizio”, ma anni fa, il pentito calabrese Saverio
Morabito fece il nome del boss della ndrangheta calabrese Antonio Nirta,
infiltrato nelle BR su ordine del discusso ufficiale dei carabinieri in odore
di servizi segreti, Delfino, pure lui calabrese. Tuttavia sono emersi maggiori
elementi per sostenere che il killer fosse un altro, il “legionario di nome De”
citato nell’articolo di Mino Pecorelli “Vergogna buffoni !” sul numero di OP
del 16 gennaio 1979.
Il riferimento è a Giustino De Vuono, calabrese, ex
legionario vicino agli ambienti della malavita calabra, ma anche
dell’Autonomia, infatti venne condannato per il sequestro e la morte
dell’ingegner Saronio. Descritto come tiratore eccezionale poco prima del
sequestro dell’onorevole Moro evase dal carcere e verrebbe da chiedersi se tale
fuga non venne “pilotata” e favorita dal qualcuno. A poche ore dall’agguato di
via Fani il Ministero degli Interni fa diffondere le fotografie dei brigatisti
che presumibilmente hanno partecipato all’azione e fra queste c’è quella di De
Vuono. Viene riconosciuto da due testimoni oculari in via Fani e l’addetto alle
pulizie dello stabile di via Gradoli lo identifica come l’uomo che, vestito da
spazzino, vi era entrato e uscito.
Un servizio del giornale spagnolo “El Pais” ne parla come
l’uomo come l’esecutore della sentenza di morte dell’onorevole Moro. Insomma ce
ne sarebbe abbastanza per approfondire, invece il nominativo del presunto
killer calabrese sparirà dalle cronache giudiziarie. L’appartenenza al servizio
segreto parallelo comandato da Titta potrebbe essere la risposta agli
interrogativi.
Nell’immediatezza dei fatti seguiti all’agguato in via Fani,
da uno stabile qualcuno scatta delle fotografie, ma del rullino non rimarrà
alcuna traccia. Perché ? Perché gli scatti ritraggono un personaggio della
malavita calabrese e qualcuno è interessato ad occultare questa presenza,
soprattutto nella stessa ndrangheta. Quando un membro della mafia calabrese
contatta l’onorevole Cazora, esponente della sinistra democristiana, mette in
chiaro l’interesse per il rullino in cambio dell’indicazione della zona in cui
si trovava la “prigione” brigatista in cui è rinchiuso Moro. Agli atti quel
contatto sembra finalizzato più a soddisfare l’interesse dei malavitosi
calabresi che non a centrare l’obiettivo della liberazione dello statista
democristiano. Come è noto, per ottenere la sua liberazione, si attivarono gli
amici democristiani di corrente come il collaboratore Sereno Freato e altri
esponenti politici di origine calabrese come Misasi ed il citato Cazora.
Sicuramente si mossero per adoperasi anche per trattative con chi potesse
risultare utile alla liberazione di Moro, al di là della linea ufficiale del
partito all’insegna della supposta “fermezza”.
Per quanto parole possono essere sprecate sull’argomento è
fuor di dubbio che approcci, trattative, contatti sotterranei si protrarono
nell’arco di quei 55 giorni. Si aggiunga che non fu predisposta alcuna seria
operazione di polizia per stanare i brigatisti, ma si fecero – come è stato
amaramente sottolineato – “operazioni di parata” per “addormentare” e
rassicurare l’opinione pubblica e tenerle all’oscuro su quel che si stava
consumando. Lo stesso Pecorelli accusò il Ministro degli Interni Francesco
Cossiga di non fare praticamente nulla di concreto per liberare l’ostaggio
delle BR anche perché “doveva riferire a qualcuno più in alto, fino alla Loggia
di Cristo in Paradiso”. Sappiamo come i Comitati di Crisi e gli stessi vertici
di polizia, carabinieri, esercito e servizi segreti fossero occupati dalla
famigerata loggia “ultratlantica” della Propaganda Due. Varie testimonianze
provenienti dagli ambienti della criminalità organizzata come il boss della
Nuova Camorra Organizzata e quella del pentito di Cosa Nostra siciliana Mannoia
- che mise in bocca al boss del quartiere palermitano di Porta Nuova Pippo
Calò, il cassiere della mafia e in stretti rapporti di alleanza con i
testaccini della banda della Magliana, le seguenti parole: “Uomini molto
importanti del suo partito lo vogliono morto!” – inducono a ritenere che le
iniziative che avrebbero coinvolto le maggiori organizzazioni criminali
italiane furono stoppate, perché fondamentalmente i più potenti uomini della DC
non volevano trattare con le BR e preferivano che Moro venisse eliminato. Per
fermare tali iniziative fu coinvolto pure il mafioso italoamericano Frank
Coppola.
Anche la confidenza resa da Titta a Ristuccia in base alla
quale il Presidente del Consiglio era “intenzionato a non fare niente” converge
con le altre testimonianze. Vi è da aggiungere, però, che l’Anello si attivò per
avviare una trattativa per la liberazione di Moro dietro pagamento di riscatto.
L’uomo delegato a “raccogliere” la cifra da pattuire era un
curioso frate appartenente all’Anello, padre Zucca, mentre la somma sarebbe
stata nella disponibilità del Vaticano. Papa Paolo VI, che di lì a qualche mese
morirà, era amico di antica data dell’onorevole Moro, disponibile a promuovere
iniziative per la sua salvezza. L’ipotesi di contatti fra Vaticano e BR
potrebbe essere corroborata dall’azione di polizia che condusse all’arresto dei
brigatisti Morucci e Faranda, già rappresentanti dell’ala della “trattativa”
nelle BR ed ormai fuori dall’organizzazione, nel marzo del 1979 in viale Giulio
Cesare, un altro appartamento covo denso di misteri piuttosto inquietanti.
Secondo Giuliana Conforto, figlia di un ormai noto esponente del PSI e spia
“doppiogiochista” del KGB sovietico, fu Proprio Franco Piperno a chiederle di
ospitare i due terroristi. La
Conforto , proprietaria dell’appartamento, era anche lei
introdotta nella fazione dell’Autonomia che ruotava intorno alla rivista
“Metropoli”. Nella perquisizione dell’appartamento fu rinvenuto un biglietto
con il recapito del Presidente dello IOR monsignor Paul Marcinkus che poi
diverrà noto alle cronache come “socio” nei maneggi finanziari dei
bancarottieri piduisti Calvi e Sindona. Il riscatto avrebbe dovuto essere
pagato dallo IOR. Se l’Anello si è inserito nella “trattativa” è improbabile
concludere che non avesse il placet del Presidente del Consiglio Giulio
Andreotti che, infatti, dirà che l’unica vera iniziativa di “trattativa”
praticata è stata quella del Vaticano. Bisognerebbe chiedersi inoltre se per
caso le varie “linee di trattativa”: quella del riscatto pagato dal Vaticano
con l’intervento dell’Anello, i contatti fra esponenti del PSI, leader
dell’Autonomia ed alcuni brigatisti e quello fra i democristiani vicini a Moro
e la ndrangheta calabrese non si intreccino fra loro.
Se si leggono verbali di intercettazioni, testimonianze,
documenti si ha l’impressione che questa “sovrapposizione” sia soprattutto
servita per finalità politiche e per i giochi di potere piuttosto che per
salvare l’onorevole Moro. Innanzitutto questo ambiguo atteggiamento
“trattativista” si incuneava nella coalizione della solidarietà nazionale e questo
era certamente auspicato da chi voleva allontanare il PCI dalle stanze che
contavano. Sicuramente era auspicato dal segretario del PSI Craxi che voleva
rilanciare il suo partito, in un ruolo autonomi e che verrà precisato negli
anni a seguire. In quel frangente Moro e gli uomini a lui vicini erano disposti
anche a sacrificare l’intesa fra DC e PCI per un rinnovato accordo di
“centrosinistra” imperniato sulla DC e sul PSI. Insomma il partito
scudocrociato era indubbiamente sotto ricatto anche per la paura delle
rivelazioni dello statista nei carceri brigatisti. Una situazione che si
ripresenterà con il sequestro Cirillo, vicenda in cui, non a caso, interverrà
nuovamente l’Anello, e che si svolgerà nel periodo caldo in cui verrà alla luce
(parte) della composizione della loggia P2. C’era poi la necessità di
rimuovere, di zittire, di occultare i risultati dell’interrogatorio brigatista,
ecc… Non dovrebbe sorprendere quindi la cortina di fumo che è stata calata. Se
nessuna operazione di polizia è stata fatta durante quei 55 giorni significa
che l’affaire si è sviluppato lontano dai riflettori. Occorreva anche tenere
lontana la Magistratura
dall’odore di scandalo che emanava la
DC , vecchio partito costretto al potere.
E il democristiano sui generis Andreotti ? Con ogni
probabilità mirava a sfruttare la situazione per rilanciare sé stesso e il suo
potere ed è senz’altro degno di nota che se l’Anello, direttamente o
indirettamente, partecipò all’agguato di via Fani e al contempo venne
utilizzato per la trattativa dietro riscatto delle BR, non hanno certo contato
molto le valutazioni circa l’incolumità dell’onorevole Moro. In tal caso non
sarebbe stata possibile nemmeno l’azione di via Fani.
Come “centro del centro”, grande tessitore e manovratore,
referente non sempre ortodosso degli americani, Andreotti poteva anche
considerare Moro un ostacolo. In fondo il divo Giulio ha dialogato con tutti,
ma veramente tutti, dall’MSI al PCI e comprendeva forse che l’ondata di
sinistra con l’avanzata elettorale del PCI poteva essere un “fuoco di paglia”,
come è stato. Chi poteva essere più adatto per garantire in quel contesto un
transizione moderata se non lui ? Prima contrario all’apertura al PCI, poi
l’avvicinamento e di nuovo l’allontanamento dopo qualche tempo… Occorreva, invece,
mettersi a riparo dalle sortite degli avversari politici del momento e
rassicurare gli americani e gli alleati. Sta forse in tutto questo il senso
dell’intervento dell’Anello.
L’affaire Moro rimane una concatenazione di vicende
complesse, in parte oscure ed inquietanti e con più chiavi di interpretazione.
Una di queste pare essere la ricorrenza della Calabria.
Calabrese è Giustino De Vuono, indicato come l’infallibile
tiratore di via Fani, legato all’Anello, alla malavita della sua regione e a
personaggi dell’Autonomia.
Calabresi sono senza dubbio il boss della ndrangheta Nirta e
l’ufficiale dei carabinieri Delfino.
Calabresi sono gli amici democristiani di Moro che entrano
in contatto con la ndrangheta per salvare Moro.
Calabrese è l’onorevole socialista autonomista Giacomo
Mancini così generoso e disponibile nei confronti dell’area del “sovversivismo
rosso”.
Il professore di Fisica Franco Piperno, leader
dell’Autonomia e amico dell’onorevole Mancini, in contatto con i brigatisti più
disponibili alla trattativa, insegna nell’Università di Cosenza in Calabria e
la frangia più agguerrita dell’Autonomia sembra fare riferimento a tale
regione.
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